Passando ora all'oggetto del post, il passo che ho portato a dimostrare la presenza dell'azione/verbo nella poesia italiana è tratto dal XX e conclusivo canto del poema, ci troviamo davanti a uno dei momenti più emozionanti dell'opera: La Converione di Arminia.
Il passo narra di due figure: Rinaldo, guerriero crociato; Arminia, maga mussulmana. Ho deciso di riportare soltanto il dialogo dei due personaggi perché riportare per intero l'episodio sarebbe stato troppo lungo per ciò allego ai versi una breve introduzione
[L'intero brano è tratto da questa pagina]
Mentre infuria la terribile battaglia finale tra i Crociati e l'esercito egiziano, casualmente Rinaldo si imbatte nella maga Armida, seduta sul suo carro da guerra e circondata dai guerrieri che le hanno promesso la testa dell'uomo che l'ha abbandonata: l'incantatrice tenta più volte di colpirlo con le sue frecce, poi si rende conto di essere ancora innamorata di lui e si allontana, decisa a darsi la morte. Rinaldo, che l'ha vista mentre sbaraglia i campioni pagani della fanciulla, la segue e non solo le impedisce di suicidarsi, ma la consola con parole cortesi, alle quali la maga si dice pronta a convertirsi alla fede cristiana e a diventare la sua fedele serva, pur di restargli accanto.
"O sempre, e quando parti e quando torni
egualmente crudele, or chi ti guida?
Gran meraviglia che 'l morir distorni
e di vita cagion sia l'omicida.
Tu di salvarmi cerchi? a quali scorni,
a quali pene è riservata Armida?
Conosco l'arti del fellone ignote,
ma ben può nulla chi morir non pote.
Certo è scorno al tuo onor, se non s'addita
incatenata al tuo trionfo inanti
femina or presa a forza e pria tradita:
quest'è 'l maggior de' titoli e de' vanti.
Tempo fu ch'io ti chiesi e pace e vita,
dolce or saria con morte uscir de' pianti;
ma non la chiedo a te, ché non è cosa
ch'essendo dono tuo non mi sia odiosa.
Per me stessa, crudel, spero sottrarmi
a la tua feritade in alcun modo.
E, s'a l'incatenata il tòsco e l'armi
pur mancheranno e i precipizi e 'l nodo,
veggio secure vie che tu vietarmi
il morir non potresti, e 'l ciel ne lodo.
Cessa omai da' tuoi vezzi. Ah! par ch'ei finga:
deh, come le speranze egre lusinga!"
Cosí doleasi, e con le flebil onde,
ch'amor e sdegno da' begli occhi stilla,
l'affettuoso pianto egli confonde
in cui pudica la pietà sfavilla;
e con modi dolcissimi risponde:
"Armida, il cor turbato omai tranquilla:
non a gli scherni, al regno io ti riservo;
nemico no, ma tuo campione e servo.
Mira ne gli occhi miei, s'al dir non vuoi
fede prestar, de la mia fede il zelo.
Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi,
riporti giuro; ed oh piacesse al Cielo
ch'a la tua mente alcun de' raggi suoi
del paganesmo dissolvesse il velo,
com'io farei che 'n Oriente alcuna
non t'agguagliasse di regal fortuna."
Sí parla e prega, e i preghi bagna e scalda
or di lagrime rare, or di sospiri;
onde sí come suol nevosa falda
dov'arda il sole o tepid'aura spiri,
cosí l'ira che 'n lei parea sí salda
solvesi e restan sol gli altri desiri.
"Ecco l'ancilla tua; d'essa a tuo senno
dispon," gli disse "e le fia legge il cenno."
[Gerusalemme Liberata, XX, 61-68; 117-136]
![]() |
Rinaldo e Armida Annibale Caracci - 1601 |
Per Approfondire:
Letteratura Italiana: https://letteritaliana.weebly.com/
Nessun commento:
Posta un commento